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Prima di ascoltare Travelogue, sapendo che si sarebbe trattato di un possibile sequel di Both Sides Now (stavolta invece che standard dell’American Songbook la cantautrice canadese ha riarrangiato 22 pezzi che coprono i suoi 35 anni di carriera) ho pensato: devo ascoltare l’album come se fosse una retrospettiva eccentrica. Una specie di ‘auto-tributo’ teso a dimostrare che le sue composizioni non sentono l’usura del tempo e che, come i grandi classici, possono ‘assorbire’ arrangiamenti diversi; in particolare, quelli con l’orchestra condotta da Vince Mendoza (proprio come in Both Sides Now).
Poi, leggo le note introduttive firmate da Larry Klein (suo ex marito nonché raffinatissimo partner artistico) che tiene subito a specificare che "l’obiettivo primario di questo lavoro è stato quello di evitare la creazione di un greatest hits con orchestra". Aggiungendo subito dopo di aver avuto "la sensazione che ricontestualizzando le canzoni di Joni in un arrangiamento orchestrale, tutto il feeling, lo humor e lo straordinario spessore artistico del suo lavoro avrebbero potuto essere percepiti da un pubblico diverso".
Allora infilo il primo dei due dischetti nel lettore decidendo di fare un ascolto ‘emotivo’. Che si rivela sufficientemente indicativo. Perché, come prevedibile (almeno per i Jonimaniacs tra cui il Vs. Aff.mo), Travelogue ricalca il cliché strumentale del precedente album. Idem dicasi per le inimitabili interpretazioni della Mitchell: classe sopraffina, espressività formidabile, eleganza squisita.
Non ci sono più aggettivi in grado di descrivere il talento ‘visionario’ né le capacità espressive di Miss Joni Mitchel; né tanto meno ha senso proporre paragoni verosimili: ‘quelle’ che oggi tentano di ‘copiarla’ (da Diana Krall a Shawn Colvin, da Patrica Barber a Sarah McLachlan sino, se vogliamo, alla grande Cassandra Wilson – tutte, per altro, beniamine del nostro giornale) spariscono di fronte alla sua arte. Così come sono ‘sparite’ negli anni le Carly Simon, le Kate Bush, persino (tenetevi forte) le Rickie Lee Jones.
Ma non è questo il punto.
Joni infatti (e qui lo fa in modo addirittura esplicito) si misura ormai solo con se stessa. E con il suo ingombrante, irripetibile passato. Tanto che, paradossalmente, Larry Klein (sempre nelle note di copertina) ha sentito il bisogno di specificare che "inevitabilmente, i fedeli fan di Joni continueranno a preferire le versioni originali con le quali sono cresciuti o che sono diventate abituali compagne di viaggio delle loro vite. Ma gli consiglio lo stesso di ascoltare questi nuovi arrangiamenti e di farli lentamente insinuare dentro di loro. Sono certo che non se ne pentiranno".
Ha ragione. Persino al primo ascolto ‘emotivo’ alcuni pezzi sembrano già notevolissimi. Non posso né voglio dire meglio o peggio degli originali. Sono semplicemente diversi. Anche nell’intenzione. Certo è che specie quando i brani suonano meno ‘abituali’ assumono un fascino diverso e parecchio intrigante. Per questo, pezzi un poco ‘dimenticati’ come Otis And Marlena (da Don Juan’s Reckless Daughter) e Be Cool (da Wild Things Run Fast come You Dream Flat Tires, Love e Chinese Café/Unchained Melody) scelti per aprire i due cd, risultano assolutamente incantevoli. Stimolando anche nell’appassionato il confronto con l’originale. Un confronto positivo, teso a stimolare la riscoperta, un po’ come avviene quando entriamo in contatto con mondi musicali sconosciuti grazie all'intermediazione dei nostri preferiti. E se per i vari Woodstock, The Circle Game, The Last Time I Saw Richard, For The Roses la nuova versione (in alcuni casi, l’ennesima) non aggiunge niente a pezzi epocali che probabilmente non hanno bisogno di ulteriori sviluppi, altri brani, invece, si adattano benissimo proprio in virtù della struttura e dello spirito originale agli arrangiamenti orchestrali (di stampo jazzy, impreziositi dagli interventi di Wayne Shorter, Herbie Hancock, Kenny Wheeler, Billy Preston e sorretti dalle percussioni colorate di Paulinho Da Costa e dalla batteria sciccosissima di Brian Blade): Hejra o God Must Be A Boogie Man sono emblematici a tale proposito.
Infine, ci sono pezzi che, quasi, risorgono a nuova vita: si tratta in particolare (è solo un caso?) di due canzoni di un suo album relativamente recente (il magnifico, Night Ride Home). Nell’ordine Slouching Towards Bethlehem e Cherokee Louise, che Joni ‘pennella’ in modo magistrale. Qui, davvero, l’unico paragone possibile (uno di quelli che alla Mitchell, forse, fanno più piacere) è quello con Billie Holiday: mitica come Joni, imitatata da molte senza successo, dotata di una versatilità stilistica sbalorditiva, dello stesso tasso di sensibilità, del medesimo livello di passionalità. Persino la voce di Joni (come capitato a Lady Day a fine carriera) perde in brillantezza ma guadagna in termini di espressività e pathos.
Registrato negli studi londinesi di George Martin, Travelogue dura due ore abbondanti. Migliorando ascolto dopo ascolto. Sarà accompagnato da un documentario diretto da Alison Anders (che verrà presentato al prossimo Sundance Festival) e da una retrospettiva pr la serie American Masters (della tv pubblica Pbs) in onda, negli Usa, il prossimo marzo.
Voto: 8
Perché: è un auto-tributo (in chiave orchestrale) che ripercorre tutta la carriera dell’unica donna del 900 in grado di competere compositivamente con Bob Dylan. Dal primo album sino a Turbulent Indigo, 22 pezzi e oltre due ore di musica inimitabile per palati raffinati e spiriti sensibili. Vi pare poco?
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